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Lunedì, 02 Dicembre 2013 13:06

Omosessualità

L’omosessualità è l’attrazione erotica per persone del proprio stesso sesso; un fenomeno ben noto in tutti i tempi e in tutte le culture, la cui interpretazione teorica, variabilissima e in perpetuo divenire, riflette, anche nella psicoanalisi, più la storia dei pregiudizi che quella della scienza. Dietro l’etichetta di omosessualità si raggruppano in realtà le situazioni psicofisiche più disparate; propensioni sessuali o amorose per persone dello stesso sesso agite o non agite; fantasie consce e inconsce, disturbi dell’identità di genere; inibizioni pulsionali, stati di indifferenziazione, e così via, in tutte le possibili gradazioni psicopatologiche: dalla psicosi alla perversione, alla nevrosi fino alla normalità. Talora l’omosessualità è un sintomo, talora una difesa da angosce profonde, ma talora è semplicemente la forma più congeniale in cui si può manifestare la sessualità di una persona.

Aspetti storici. L’omosessualità venne considerata dapprima un peccato contro la morale, poi un crimine contro la legge e infine una tara psicofisica. In ambito medico-psichiatrico, bisogna attendere gli anni Settanta del 20° sec. perché il DSM – il manuale psichiatrico diagnostico e statistico dei disturbi mentali – decida di derubricare l’omosessualità dalle perversioni, conservando solo un capitoletto marginale sull’omosessualità distonica – cioè non accettata dal soggetto – inserita tra le disfunzioni sessuali. All’inizio degli anni Novanta, su istanza dell’American psychiatric association, l’International psychoanalytical association ha approvato un documento che dichiara la non discriminazione verso gli omosessuali nei criteri di selezione dei candidati da parte degli istituti di formazione. Tuttavia, coesistono nella modernità convinzioni individuali inconciliabili tra chi continua a ritenere l’omosessualità una patologia, più o meno curabile, e chi respinge recisamente come retriva e ideologica una tale posizione. Per trovare un pensiero equilibrato e spregiudicato bisogna risalire a Sigmund freud, che già nel 1905 scrive: «L’indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare gli omosessuali come un gruppo di specie particolare rispetto alle altre persone [...] tutti sono capaci di scegliere un oggetto sessuale dello stesso sesso e hanno anche fatto questa scelta nell’inconscio». E aggiunge che se si volesse dare una spiegazione per tale inclinazione, si dovrebbe anche – a rigore – spiegare la ragione dell’amore esclusivo di un individuo per qualcuno dell’altro sesso. Secondo la psicoanalisi, l’orientamento sessuale di ciascuno – a partire dall’universale bisessualità – avviene per rimozione e rinuncia a una parte di sé. La penosa conflittualità interiore che nella maggior parte dei casi conduce alla supremazia di una parte sull’altra non è però mai definitiva e totale, per lo meno a livello delle fantasie inconsce.

Equivoci sull’omosessualità. Periodicamente si è riproposta l’ipotesi di una base biologica, genetica dell’omosessualità, e altrettanto periodicamente si riaffaccia la polemica circa le cause organiche, oppure psicologiche, del comportamento sessuale (➔). In ogni manifestazione della nostra identità psicofisica, invece, sempre vale il criterio della multifattorialità, ossia della convergenza di più fattori – genetici, anatomici, pulsionali, relazionali, senso psicologico del genere a cui si sente di appartenere, ruoli e funzioni culturalmente determinati – in un intreccio inestricabile tra congenito e acquisito. Per contro, non si può neppure parlare di libertà di scelta rispetto al nostro orientamento sessuale; tutti semmai ‘siamo scelti’ dalla vita a trovare soluzioni più o meno armoniose e più o meno felici, a seconda delle vicissitudini e della storia relazionale di ciascuno. Un altro grave equivoco è equiparare l’omosessualità alla pedofilia o al transessualismo o al travestitismo (➔ transgender). Si continua a confondere, inoltre, la sessualità, come pulsione di desiderio e di piacere, con il genere sessuale, che è invece il senso psicologico di appartenenza al maschile o al femminile (➔ identità). Come le altre forme dell’identità psicosessuale maschile e femminile dei nostri giorni, anche le forme di omosessualità sono cambiate, così come è cambiata la femminilità delle donne di oggi rispetto alla creatura dimezzata e infantilizzata della tradizione, o la maschilità degli uomini dei nostri tempi rispetto alla caricatura fallica della virilità del passato. Per queste stesse ragioni non è possibile porre la questione delle possibili adozioni di bambini da parte di coppie gay nei termini rozzi e perentori del sì o del no.

Omofobia. Non è invece cambiata nel corso del tempo l’omofobia, che discende sempre dalle stesse grossolane motivazioni inconsce: il bisogno di difendersi, mediante scissione e proiezione, da parti di sé vissute come inquietanti. Non a caso, la praticano quasi esclusivamente i maschi che sentono messe in discussione le loro esili certezze, tutte esteriori, circa la propria identità virile. Minore ostilità e allarme vengono in genere nutriti nei confronti delle lesbiche, perché, proprio come nel passato, la sessualità femminile – sempre per antico pregiudizio – viene vissuta come meno eversiva, meno preoccupante, meno violenta; comunque nel segno 'meno'.

Capacità di amare. La psicoanalisi non può e non vuole essere normativa e non stabilisce come ciascuno debba vivere o amare. La libido, oltre che piacere, è legame. Quindi non ci dovremmo interessare tanto alle variopinte forme dell’erotismo, ma alla capacità che ha ciascuno di vivere e di integrare nella dimensione interpersonale e intrapsichica emozioni e passioni, sesso e affetti nella continuità del rapporto. La bussola dell’equilibrio non è il genere sessuale del partner, ma la qualità della coppia che si è in grado di costruire, nel riconoscimento dell’altro nella sua interezza. La spia della patologia, per contro, negli omosessuali come negli eterosessuali, è l’incapacità di amare.

Lunedì, 02 Dicembre 2013 13:05

Alla NON RICERCA della felicità

Quanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellano le emozioni che dovremmo provare e quelle che dovremmo esprimere?

Ad oggi, le emozioni sono uno dei più studiati costrutti psicologici: sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, che si verificano in risposta a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza: nell’immaginario comune è ricorrente una concezione dell’emozione come reazione automatica e non mediata dalla cognizione, come anche spesso viene raffigurata nell’arte.

Tuttavia, la letteratura scientifica ha ampiamente confermato come questo processo psicologico sia ampiamente regolato da fattori cognitivi, ovvero ad esempio da come valutiamo cognitivamente un determinato evento, o da quali sono le nostre aspettative verso esso.
Uno degli aspetti più controversi è il ruolo della nostra società su ciò che proviamo e su come lo esprimiamo. Studi recenti nell’ambito della psicologia sociale hanno evidenziato l’importanza delle opinioni altrui nella produzione delle nostre emozioni: ad esempio, Evers e colleghi (2005) hanno trovato che le donne sono meno inclini degli uomini ad esprimere la rabbia perché più portate a pensare alle conseguenze sociali negative che ne seguirebbero.

Un recente articolo di Bastian e colleghi del 2012, ha indagato come la desiderabilità sociale di certe emozioni rispetto ad altre influenzi l’esperienza emotiva della persona e più in generale il suo benessere psicologico.

Dai risultati emerge che più forte è la percezione dell’aspettativa sociale di non provare emozioni negative, più frequenti e intense sono le emozioni negative provate. In altre parole, gli Autori sostengono che il fatto che una persona senta di non dover provare certi sentimenti, promuove lo stato di disagio emotivo e di auto-svalutazione quando li prova.
Nel momento in cui le persone non riescono a soddisfare queste aspettative, tendono a sentirsi “fallite”. Tale riflessione negativa su sé stessi aggrava ulteriormente queste emozioni (Moberly & Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema, 2000).

Questo studio è importante nel clima sociale odierno, dove apparire felici e funzionanti sembra essere una necessità. Rispetto a questo gli autori rilevano una differenza tra la cultura individualistica tipica dei Paesi d’Occidente e quella collettivistica dei Paesi d’Oriente: in questi paesi l’accettazione da parte del gruppo e l’equilibrio emotivo sono valutate come più importanti rispetto al perseguimento della felicità individuale. Le persone dell’Est Asiatico si dimostrano infatti piuttosto esitanti nell’esplicitare e riflettere sulle emozioni positive e riportano punteggi inferiori ai questionari sul benessere psicologico e sulla felicità, rispetto agli Occidentali (Diener, Suh, Smith & Shao, 1995).

Al contrario, le emozioni negative come tristezza e ansia sono meno stigmatizzate e medicalizzate, con la conseguenza che ci sono meno aspettative sociali verso le emozioni negative (Bastian et al., 2012).

Per quanto riguardo la cultura occidentale, le aspettative sociali stabiliscono degli “standard” di riferimento su come dovremmo sentirci, ovvero degli obiettivi emozionali che sono allo stesso tempo utopici e necessari, difficili da raggiungere e difficili da abbandonare (Watkins, 2008).

In conclusione, nessuno è immune dalle aspettative sociali in quanto siamo cittadini che vivono all’interno di una comunità. Norme sociali e culturali non scritte regolano buona parte delle nostre interazioni con gli altri. Questo articolo propone un buon punto di riflessione per domandarci quanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellino le emozioni che dovremmo provare e quelle che dovremmo esprimere. Non esistono emozioni di tipo A o B, emozioni buone o cattive, ma tutte hanno la stessa importanza per la sopravvivenza reale e sociale dell’essere umano pur essendoci, come abbiamo visto, differenze culturali nel valore e nel ruolo sociale ad esse attribuito.

Un po’ come provocazione ed un po’ come sfida verso noi stessi, proviamo invece a riflettere sui benefici che hanno portato (o che potrebbero portare) nella nostra vita le emozioni negative: pensiamo al loro potenziale creativo (Wilson, 2008), alla loro importanza nelle relazioni interpersonali (McNuilty, 2010) e al ruolo fondamentale che svolgono nella realizzazione di una vita ricca ed appagante (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999).

Dott.ssa Facilone

Psicologa e Psicoterapeuta ad Orientamento Psicoanalitico, Gruppoanalista, Psicologo Giuridico e Psicopatologo Forense.

Dove sono

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