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Mercoledì, 27 Gennaio 2016 11:14

Cattive madri

L’aborto colpevole

“Io non lo farei mai”. Quante volte abbiamo pensato una cosa del genere rispetto all’aborto o quante volte abbiamo sentito persone che lo dicevano. Poi succede che  hai un ritardo, fai il test e mentre la finestrella diventa rosa, tu cominci a vedere tutto nero. Panico. Tu che non l’avresti mai fatto, ti senti catapultata verso quella che ti appare come una scelta obbligata e dolorosa. “Non posso tenere questo bambino, non posso”.

Secondo stime recenti nel mondo ci sono ogni anno 26 milioni di aborti legali (Speckhard, A. & Mufel, N. 2005). Scoprire di aspettare un bambino, quando questo avviene in condizioni poco favorevoli, può essere uno shock e rappresentare un momento molto critico nella vita di una donna (Gen Hosp Psychiatry, 2005).

Ho conosciuto Miranda nei corridoi di un ospedale, dove ha vissuto e consumato il suo personale inferno. Quello di cui mi ha parlato lo chiamerei l’aborto della colpa. Una gravidanza frutto di una relazione extraconiugale, una gravidanza che non doveva accadere, una gravidanza che da’ corpo alla drammaticità della situazione interna ed esterna della vita di una donna e di fronte alla quale lei non poteva che essere sola. Sola a prendere questa decisione, sola a portarla avanti, ritagliando di nascosto i tempi e gli spazi per quella tortura e per quel dolore, come nascosti e segreti erano stati, un tempo, gli spazi e i tempi per quell’amore clandestino.

La dimensione della vergogna e del peccato diventa dominante: il peccato del tradimento si somma al peccato di impedire ad una vita di nascere, evento che materializza, attraverso la morte fisica del feto, anche quella morale della donna che si trova costretta a farlo. Abortire sembra la colpa e al tempo stesso la punizione più grande che una donna possa mai ricevere.

Si apre il baratro di un conflitto insanabile: “non voglio uccidere una vita”, “non posso tenere questo figlio”. Un conflitto da cui non si può uscire senza una ferita profonda, quella della perdita di qualcosa. Cosa significa restare incinta del proprio amante? Cosa significa che quell’amore segreto e senza status si manifesti improvvisamente in una nuova vita? Se interrompere una gravidanza è lancinante per qualsiasi donna, in qualsiasi circostanza, immaginiamo quale significato dirompente possa assumere quando quel bambino è frutto di un peccato.

Ma un’altra dimensione è drammaticamente presente e dominante in questi casi, cioè quella della solitudine. È molto evidente anche solo da come alcune donne si muovono negli spazi dell’ospedale dove attendono le visite e l’intervento per l’interruzione: sono quelle accompagnate da nessuno, con lo sguardo basso, piegato forse più dalla vergogna che dal dolore, sono quelle che non si riconoscono nemmeno il diritto di piangere, perché sono loro stesse la causa del loro male e del loro travaglio. Sono quelle che appena tutto finisce si vestono e se ne vanno di corsa, negandosi anche un tempo per elaborare, sono quelle che rimetteranno la loro maschera e torneranno al loro posto, sperando che nessuno quel giorno abbia notato la loro assenza, sono quelle che chiuderanno nel loro silenzio tutta questa esperienza, attente a non far trapelare nulla nel loro mondo circostante.

La possibilità di condividere il dolore, di poterne parlare, di poter ricevere aiuto e comprensione è un elemento decisivo nella possibilità di elaborare un dolore. Se non riusciamo ad integrare l’esperienza dolorosa nella nostra storia di vita, ma addirittura la allontaniamo dal nostro senso di sé, rischiamo di trasformare l’evento della perdita in un vero e proprio trauma e quindi di vivere il presente e il futuro come una sorta di prigione del passato. Per evitare che ciò avvenga bisogna elaborare la perdita attraverso un confronto con le immagini, i pensieri, i ricordi, gli affetti legati alla vicenda dolorosa, poiché tutto questo evocherà e darà la possibilità di rappresentare tutte quelle emozioni violente e perturbanti sollecitate dall’esperienza dell’aborto, di per sé indicibili, favorendone così l’elaborazione.

Secondo il modello di John Bowlby  (1983) l’elaborazione del lutto si articolerebbe in quattro tappe:

1) Fase di stordimento; 2) Fase di ricerca e struggimento per la figura perduta; 3) Fase di disorganizzazione e disperazione; 4) Fase di riorganizzazione.

Credo che le donne che devono tenere nascosto l’aborto – quindi di una perdita, un lutto – siano ostacolate in tutte e quattro le fasi, ma certamente la più problematica diventa quella della riorganizzazione. Durante questa fase infatti la donna ha la possibilità di strutturare una nuova rappresentazione della realtà, dell’immagine di sé, degli altri e del mondo, ritornando alle attività sociali ed eventualmente all’apertura verso una nuova creatività. Il dolore si trasforma in un evento traumatico e patologico nel momento in cui non si è capaci o non è possibile  esprimere in maniera aperta la rabbia e la tristezza. Se tali emozioni vengono invece dissociate e represse, continueranno ad esistere ed influenzeranno il comportamento e gli stati emotivi della persona in maniera anomala e distorta.

“C’erano ragazze molto giovani, accompagnate dalle loro amiche o dalle loro madri, i loro cellulari squillavano, amici e parenti chiedevano notizie, il loro errore di inesperienza e di gioventù aveva tutta l’aria di trovare comprensione e perdono nella società. Poi c’erano le donne che dovevano abortire per forza, per motivi di salute, addolorate per la perdita di un figlio desiderato, in loro quello strazio era evidente e il conforto di parenti e compagni le accompagnava teneramente per tutto il percorso. E poi c’ero io. Sola, piena di vergogna”.

E se le ragazzine erano giustificate dall’immaturità e dall’inesperienza e le altre salvate dallo status di vittime della natura, Miranda in quel girone dantesco si sentiva l’unica vera cattiva madre. La solitudine e il senso di abbandono sono stati vissuti da Miranda come la giusta punizione per lo sbaglio commesso, uno sbaglio che ancora poteva essere riparato accettando quella nuova vita, assumendosi le proprie responsabilità e accettando le inevitabili perdite a cui sarebbe andata incontro. Ma per non perdere niente, Miranda sente di aver perso la cosa più importante: il rispetto di sé.

Bibliografia
Bowlby, J.  (1983) “ Attaccamento e perdita”. Vol. 3. Boringhieri . Torino.
Speckhard, A. & Mufel, N. (2005) “Transitioning to the West: Gender Attitudes about Contraception and Pregnancy In a Former Soviet Union Country” Journal of Prenatal & Perinatal Psychology & Health Summer.
Gen Hosp Psychiatry. (2005) Jan-Feb;27(1):36-43. Reasons for induced abortion and their relation to women’s emotional distress: a prospective, two-year follow-up study. Broen AN1, Moum T, Bödtker AS, Ekeberg O.

Informazioni aggiuntive

  • Scritto da: Raffaella Zani

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Dott.ssa Facilone

Psicologa e Psicoterapeuta ad Orientamento Psicoanalitico, Gruppoanalista, Psicologo Giuridico e Psicopatologo Forense.

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